quinta-feira, 17 de março de 2016

Dio non ha religione

Dio non ha religione

Faustino Teixeira

            Inizio citando un teologo francese, il domenicano Claude Geffré: «La storia religiosa dell'umanità testimonia non solo la ricerca a tentoni del mistero della Realtà ultima, ma anche la pluralità dei doni di Dio in cerca dell'essere umano». Già il mistico musulmano Rumi scriveva che non è l'assetato a cercare l'acqua, ma è l'acqua ad andare incontro all'assetato.

Mi ha sempre lasciato perplesso l'idea secondo cui le religioni aspirano a Dio, ma è solo nel cristianesimo che è possibile incontrarlo. Che le religioni parlano di Dio ma è solo nel cristianesimo che Dio parla. È la cosiddetta teologia del compimento: le religioni esprimono una richiesta di Dio che solo nel cristianesimo trova risposta. Giovanni Paolo II ha dichiarato ad Aparecida, in Brasile, che i popoli indigeni erano assetati di Dio e che questa sete è stata soddisfatta con l'arrivo dei missionari che hanno fatto loro conoscere Gesù.

Forse una delle sfide più significative per il XXI secolo è quella del dialogo tra le religioni. Non è possibile evitare di confrontarsi con quello che si presenta come un vero imperativo del nostro tempo. Siamo tutti immersi in un mondo sempre più abitato dagli altri, da identità religiose diverse che si incontrano o si scontrano. Le differenze sono dinanzi a noi, ancora più direttamente visibili e a portata di mano, e possono essere oggetto sia di preoccupazione, di sospetto e di avversione, che di tolleranza, di riconciliazione e di dialogo. La grande scommessa che abbiamo scelto di fare va in questa seconda direzione. Come afferma lo scrittore Marco Lucchesi, membro dell'Accademia brasiliana delle lettere, in un suo articolo dal titolo “Guerras de religião?”, «lo straniero bussa alla nostra porta. Non c'è altro cammino se non quello del dialogo: nell'energia crescente, nel vincolo di relazione che lo costituisce. Il dialogo è un tesoro prezioso, un luogo di avventura, di stupore e di inquietudine». Anche Panikkar parlava del dialogo come di un'avventura e di un rischio.

L'apertura dialogale è preceduta da un'accoglienza calorosa del pluralismo religioso. Non c'è possibilità di dialogo interreligioso se non si accoglie con tenerezza e con gioia il pluralismo religioso. Un pluralismo di principio, o di diritto, non un semplice pluralismo di fatto. Non, cioè, la semplice constatazione della pluralità delle religioni come una realtà che bisogna accettare ma che non è voluta da Dio, bensì il riconoscimento che la diversità è accolta con gioia da Dio, che la diversità è un valore, insostituibile, irrevocabile, che, come affermava Louis Massignon, c'è una dignità sacra nelle religioni. Un riconoscimento che ci fa vedere gli altri non come “non cristiani”, ma come nostri amici, come si esprime papa Francesco quando parla delle altre religioni.

Il dialogo richiede uno sguardo ricettivo nei confronti della diversità delle fedi. Il pluralismo non è più visto come un fatto congiunturale e provvisorio, ma inizia a essere riconosciuto nella sua positività, come pluralismo di principio o di diritto. Papa Francesco nell'Evangelii Gaudium afferma che «la diversità è bella», che c'è un valore nella diversità. E questo contraddice l'immagine di un'omogeneità cristiana. Riconoscere il valore di questa diversità è la sfida più importante per la teologia. È questo che hanno sottolineato Jacques Dupuis, Claude Geffré, Roger Haight, il gesuita statunitense autore del libro Gesù, il simbolo di Dio, o Christian Duquoc, autore del libro Unico Cristo. La sinfonia differita, in cui parla del valore della diversità e del pluralismo.

            Si tratta di uno spirito nuovo, che richiede apertura e coraggio e che invita la teologia a rompere con gli schemi tradizionali e ad avventurarsi in nuovi sentieri. Ci troviamo di fatto a vivere una situazione inedita, una situazione che suscita una nuova sensibilità, spingendoci a riconoscere la presenza di Dio e della sua grazia nelle diverse tradizioni religiose. È questo l'orizzonte destinato a segnare i prossimi passi della teologia: siamo di fronte a un pluralismo irriducibile. Come ha sottolineato Geffré, i teologi dovranno sempre di più supportare intellettualmente l'enigma di una pluralità delle tradizioni religiose nella loro irriducibile differenza. Negli amori come nelle religioni, c'è sempre uno spazio di silenzio, di irriducibilità, di irrevocabilità. Di questo parlavano Louis Massignon e Christian De Chergé: della dimensione di enigma, di mistero presente nelle tradizioni religiose. La diversità non è una novità: la storia è segnata da questa ricchezza, dall'esistenza di risposte diverse alle grandi domande esistenziali. Quello che avviene oggi è una coscienza nuova della presenza, della vitalità e della ricchezza delle altre tradizioni religiose. È qualcosa che interroga la coscienza cristiana e anche la teologia cristiana.

Umani e terrani

Viviamo una situazione planetaria particolare, caratterizzata dall'interdipendenza e dall'interconnessione. È interessante che questo termine “interconnessione” compaia tanto spesso nell'enciclica di papa Francesco Laudato si': si tratta della parola chiave dell'antropologia contemporanea, la percezione, con tutta l'urgenza che l'accompagna, che siamo interconnessi con tutte le creature. È la questione decisiva, rispetto alla quale il dialogo interreligioso rappresenta solo un aspetto limitato. Siamo i popoli di Gaia, come diciamo in Brasile. Occorre operare una distinzione tra il termine “umani”, proprio di una visione antropocentrica, e il termine “terrani”, riferito invece a chi coglie questa dimensione di interconnessione globale. I terrani sono i popoli di Gaia, contrapposti agli umani, con la loro visione antropocentrica. Anche papa Francesco ha rivolto una severa critica all'antropocentrismo.

Il dialogo interreligioso deve essere vissuto dunque in forma più ampia, in maniera da coinvolgere non solo le religioni ma anche tutte le spiritualità nella cura della nostra Casa Comune, a favore di una interconnesione con ogni creatura vivente e non vivente. In questa prospettiva, in Brasile, io mi richiamo con forza al pensiero dei popoli originari e in particolare a due leader indigeni: Ailton Krenak, che ha ricevuto la laurea honoris causa all'Università di Juiz de Fora e David Kopenawa, autore del libro A Queda do Céu (La caduta del cielo), una riflessione sull'antropologia indigena e sulla questione della relazione con i missionari in Brasile.

Purificare il linguaggio

Nell'ambito della riflessione antropologica, Lévy-Strauss aveva già avvertito circa le resistenze alla diversità delle culture: l'essere umano ha grande difficoltà a rapportarsi con la diversità, soprattutto a causa di un etnocentrismo profondamente radicato. Per quello che sappiamo, «la diversità delle culture raramente è stata interpretata dagli esseri umani come veramente essa è, un fenomeno naturale risultante da relazioni dirette o indirette tra le società. Al contrario, è sempre stata vista come una specie di mostruosità». Così, reagendo all'etnocentrismo, l'intellettuale francese proponeva coraggiosamente la difesa della diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia. E sottolineava come tale diversità debba essere salvata e considerata senza sorpresa, senza ripugnanza, senza condanna.

Anche la teologia è oggi chiamata a cogliere questa diversità, prendendo sul serio il pluralismo religioso nel suo significato più positivo e stimolante. Come ci avverte Claude Geffré, dobbiamo raccogliere la sfida di una teologia interreligiosa in grado di reinterpretare la specificità cristiana in funzione della ricchezza di cui possono essere testimoni le altre religioni, con la loro capacità di favorire una nuova intelligenza del mistero di Dio. Accogliere il pluralismo di principio significa rivedere con serietà tutto un patrimonio teologico cristiano fondato sull'esclusivismo – fuori dalla Chiesa non c'è salvezza - o sulla prospettiva del compimento, cioè sull'idea che le altre tradizioni religiose costituiscono una preparazione al Vangelo, trovando il loro completamento nel cristianesimo. È una visione che caratterizza tuttora la riflessione teologica cristiana e le resistenze a un cambiamento sono ancora oggi molto forti. La Dominus Iesus, con la sua distinzione tra fede e credenze religiose, è considerata quasi un dogma.

Nel suo libro Il cristianesimo e le religioni, Jacques Dupuis pone l'accento sull'importanza di un salto di qualità nella riflessione teologica al fine di favorire una dinamica di apertura e collaborazione mutua con le altre religioni. Egli evidenzia tre aspetti essenziali: 1) la purificazione della memoria, 2) la purificazione del linguaggio teologico, 3) la purificazione della comprensione teologica. Aspetti intesi come fondamentali sfide teologiche per il nostro tempo. Occorre lavorare in direzione di un cambiamento della mentalità e degli spiriti, una metanoia, per un miglioramento delle relazioni tra le religioni. Occoprre operare un cambiamento nella comprensione delle altre tradizioni, verso un nuovo modo di pensare gli altri e il loro patrimonio culturale e religioso.

Noi cristiani vediamo in Gesù il cammino e la possibilità di salvezza che Dio ci ha indicato. Ma non possiamo universalizzare questa esperienza particolare come se fosse valida per tutte le altre religioni. Gesù è il cammino di salvezza vissuto dai cristiani. Si deve allora utilizzare un linguaggio più rispettoso, anziché affermare, come fa la Dominus Iesus, che le altre religioni sono «gravemente deficitarie» se paragonate alla religione cristiana. O sostenere, come ha fatto Giovanni Paolo II, che i musulmani credono in un Dio distante o che i buddisti sono atei. E lo stesso si può dire rispetto al concetto di popolo eletto e persino di Regno di Dio.

Se voglio dialogare con le altre religioni senza abbandonare la mia identità, io dico che sono domiciliato nel cristianesimo, che ne sono felice, ma che devo rispettare le altre tradizioni religiose anche nel mio linguaggio teologico. Senza pensare di essere il portatore della luce. Come se il cristianesimo fosse la religione di Dio. No, Dio non ha religione. Dio non è cattolico, come ha sottolineato papa Francesco.

A partire dai testimoni

            Tuttavia, molti teologi impegnati in questo ambito hanno sofferto una repressione da parte del Vaticano. In Brasile, quando è uscito il libro di Roger Haight, Gesù, simbolo di Dio, nessun teologo voleva farne la recensione. Per paura, perché il tema, con tutto ciò che comporta, è davvero un nido di vespe, per usare le parole di José María Vigil in riferimento alla cristologia. È difficile conciliare il dialogo con le altre religioni con l'insistenza sull'assoluta unicità salvifica di Gesù. E Roger Haight ha avuto il coraggio di dirlo. Dupuis ha scritto che Gesù non è assoluto, assoluto è Dio. Haight è andato oltre, parlando della normatività di Gesù per i cristiani, ma mettendo in discussione l'unicità della mediazione salvifica di Gesù in funzione della prospettiva dialogale. È una questione spinosa e resta tale anche sotto il pontificato di Francesco, perché la convinzione che “fuori dalla Chiesa non c'è salvezza” o che la salvezza c'è compiutamente solo nella Chiesa è entrata così a fondo nell'immaginario cristiano che risulta assai difficile operare un cambiamento in questo senso. Ho accompagnato Dupuis negli ultimi anni e sono stato testimone della sua sofferenza. Immaginiamo gli studenti che entrano nell'atrio dell'Università Gregoriana e leggono che il prof. Jacques Dupuis non darà lezione perché sotto inchiesta da parte del Sant'Uffizio. È questa situazione che lo ha fatto morire.

Ho evidenziato in un mio articolo come neppure la Teologia della Liberazione riesca a sfuggire all'inclusivismo, quella prospettiva che concede la possibilità di salvezza anche a coloro che non sono cristiani, per mezzo della loro inclusione nell'azione salvifica di Gesù Cristo. La maggior parte dei teologi legati alla TdL è riconducibile a tale prospettiva. Leonardo Boff se ne è svincolato attraverso la visione ecologica, grazie a cui è possibile dare un respiro più ampio alla riflessione teologica. Ma in genere i teologi evitano di entrare in questione relative all'ecclesiologia e alla cristologia, che sono quelle più spinose.

Da questo punto di vista, sono molto più facilitati i teologi laici che lavorano al di fuori dell'istituzione eccelsaistica. Io insegno in un'università pubblica, dove nessun vescovo può dirmi cosa devo fare nel mio lavoro teologico. Ma quando lavoravo alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro la situazione era assai più complicata. Per chi lavora in un'università cattolica la tentazione dell'autocensura è molto forte.

C'è comunque un lavoro teologico periferico che si fa strada, spesso in una prospettiva mistica, mostrando una possibilità diversa di pensare le religioni. Panikkar ha affermato che quando entriamo nello spazio delle altre religioni dobbiamo toglierci i sandali perché è uno spazio sacro.

Con l'aiuto della mistica, io penso che tutta la realtà sia sacra. Teilhard de Chardin ha scritto che non c'è niente di profano per chi sa vedere. E Ibn Arabi ha detto che tutti noi siamo coinvolti nell'alito del Misericordioso. Tutto il mondo è permeato dalla grazia. Quello che serve allora è un'educazione dello sguardo. Essere capaci di percepire la presenza di Dio in ogni luogo. Come ha affermato Roger Haight, se non riusciamo a cogliere la positività delle religioni, la loro bellezza, vuol dire che non siamo in grado di cogliere il significato del Dio Creatore, che stiamo sfigurando il volto di Dio.

Due anni fa mi è stato chiesto di scrivere un articolo critico sui pentecostali del Brasile, ma ho rifiutato: non condivido certe posizioni dei pentecostali, ma penso anche che essi abbiano offerto un contributo importante rispetto alla dignità dei poveri. E che pertanto la riflessione teologica sui pentecostali debba essere condotta con cura e delicatezza.


Per superare le resistenze, in ogni caso, penso che la via migliore sia quella di non parlare di dialogo e di pluralismo in forma astratta, ma sempre a partire dai testimoni, come Christian De Chergé o come Louis Massignon. Quando si parla di dialogo attraverso i “cercatori”, questi mistici e profeti che vivono sulla soglia, dentro l'esperienza del limite e della frontiera, le diffidenze sono minori. Davanti ai testimoni c'è poco da discutere. Come si può criticare una figura come Christian de Chergé, con la sua trasparenza, la sua onestà con il reale, come direbbe Jon Sobrino?

(Publicado em Adista Documenti n. 12 - 26/03/2016)

quarta-feira, 16 de março de 2016

As Moradas de Teresa

As Moradas de Teresa


Faustino Teixeira
PPCIR-UFJF

Síntese: No panorama ocidental da mística cristã, Teresa de Ávila (1515-1582) emerge como um dos mais vivos e ricos exemplos de itinerário espiritual. É com ela e João da Cruz que a mística nupcial ganha sua culminância, com uma riqueza simbólica e doutrinal extremamente fértil. Foi também alguém que consagrou a análise psicológica da experiência mística, fornecendo um rico manancial para a dinâmica pedagógica da oração e seu discernimento. No presente artigo, o objetivo foi apresentar ao leitor os passos que marcam o itinerário espiritual de Teresa a partir da leitura e compreensão de suas Moradas.  Para preparar esse caminho, buscou-se antes desenvolver alguns passos de sua biografia, com base no Livro da Vida.

Palavras-Chave: espiritualidade, mística, itinerário, biografia, cristianismo

Introdução

Algo de muito especial ocorre neste ano de 2015, com a celebração dos 500 anos de nascimento de Teresa de Ávila. Trata-se de uma das místicas mais importantes e provocadoras do século XVI, que inaugurou uma das perspectivas mais originais no campo da vida espiritual. Como mostrou com acerto Michel de Certeau, com a experiência de Teresa e outros místicos de seu tempo ocorreu algo de audacioso, de semelhante alcance ao vivido por pensadores como Rene Descartes. São escritos biográficos tocados “pelo mesmo problema radical (o do sujeito) e guiados pelos mesmos critérios (experiências que assinalam o processo de uma descoberta pessoal).  É uma espiritualidade que está intimamente relacionada com a “crise” que marcou aquele período de guerras religiosas, de pluralismo das igrejas, de revoltas, fomes e epidemias. Diante de um universo que desaba, os autores espirituais, como Teresa, apontam um horizonte de renovação, com ênfase no problema do sujeito:

“A deterioração dum universo torna-se para Santa Teresa a linguagem dum outro universo, esse antropológico. A perturbação que despojava o homem do seu mundo e, simultaneamente, dos sinais objetivos de Deus, é para ele precisamente o ponto de encontro do seu renascimento espiritual. É ali que o fiel encontra o sinal de Deus, certeza doravante estabelecida sobre uma consciência de si. Ele descobre em si próprio aquilo que o transcende e aquilo que o fundamenta na existência.”

Todo o progresso espiritual é visto como um itinerário que leva o sujeito ao centro de si mesmo. Como obra de maturidade de Teresa, as Moradas traduzem plenamente essa nova perspectiva. É em síntese um grande “tratado da alma, da oração e do discurso (ou itinerário) místico”, inscrevendo-se naquela “longa tradição socrática e espiritual” marcada pela busca de si mesmo, pelo conhecimento de si . Essa busca de si é diferenciada, pois a alma vem percebida como lugar de hospitalidade. O sujeito vive a dinâmica de um despojamento radical de si para então acolher ou captar a presença de uma alteridade.

E outra novidade radical na presença criativa de Teresa: o falar feminino. Numa sociedade dominada pela presença de homens, de letrados masculinos. Teresa instaura uma dinâmica diversa, quebrando a rotina desta marca na ordem da escritura e de sua apreciação. A novidade do “ato feminino de falar”. Uma palavra nova que se insinua “na delimitação masculina da escritura.”  Esse também é um dos traços mais bonitos na configuração da presença espiritual de Teresa.

As Moradas de Teresa refletem o momento de sua maturidade espiritual. É o mesmo ritmo autobiográfico do Livro da Vida, num tempo distinto, de maior amadurecimento. Com Teresa, “a autobiografia torna-se um modo de ordenar a própria alma e o próprio espírito.”  O livro traduz essa tensão criativa, pautada pela “força de um querer” e a “incerteza de um saber”; de um “corpo falante”, desejante, e uma “ordem escritural”, que delimita a imaginação e o sonho. Essa autobiografia é como um teatro

“feito de incessantes ´saídas` de Teresa (´sonhos` e ´folias`), seguidos de retorno ao lugar de encontro fixado por um comando (´retornemos`). Mas lentamente a ordem cede  e, nos últimos capítulos, o querer amoroso se encaminha só, cantando os seus sonhos.”


Passos biográficos

Teresa de Ávila  nasce em 28 de março de 1515, na cidade de Ávila. Suas referências familiares são fundamentais, tendo encontrado em seu lar um espaço de grande importância para a afirmação de sua personalidade. Em seu tempo, o lar era “o lugar onde se acende o luzeiro e o fogo para o serviço comum de uma casa”. A imagem que passa de seus pais no início do Livro da Vida é de grande generosidade: pais virtuosos e tementes a Deus.  Herda do pai, Alonso Sánchez de Cepeda, o amor aos livros. Da mãe, Beatriz de Ahumada, o exemplo da vida espiritual: o caminho da oração e da devoção a Nossa Senhora (V 1,2 e 6) . Ao lado dos pais, a presença de muitos irmãos: três irmãs e nove irmãos. Eram muito queridos, e “todos se pareciam com os pais na virtude” (V 1,3).

A criança e jovem Teresa foi muito amada, a “mais querida” , e isso marca a sua personalidade. Aliás, a mística de Ávila terá a amizade em grande conta. Esse traço da amizade é passo fundamental para se compreender a psicologia de Teresa, bem como sua espiritualidade e humanismo. Lança um conselho aos que buscam a vida de oração: “Procurem ter amizade e relações com pessoas que se ocupem da mesma coisa. Isso é importantíssimo, pois, além da ajuda mútua nas orações, muito há de lucrar aí!” (V 7,20).

Muito da obra de Teresa tem relação com a sua autobiografia. Foi o caminho que encontrou para ordenar a sua vida interior: relatar as histórias de sua vida. E isso de forma constante, mas também tensa, na busca de uma releitura e interpretação da sua vida. Neste quadro biográfico, os relatos de família ganham um significado peculiar.

Seguindo a cronologia estipulada por Tomás Álvarez, a vida de Teresa segue três momentos particulares: sua vida em família (1515-1535); sua vida como monja no Mosteiro da Encarnação (1535-1562); e o período de Teresa como escritora e inserida no trabalho das fundações (1562-1582).

No primeiro momento, que coincide com o período inicial da Reforma Protestante, Teresa vive no aconchego familiar. São vinte anos, marcados por acontecimentos de viva intensidade, também no campo da religiosidade, como ela descreve no Livro da Vida: “Procurava a solidão para rezar as minhas devoções, que eram muitas, em especial o rosário, de que minha mãe era muito devota, e, assim, nos fazia sê-lo. Gostava muito, quando brincava com outras meninas, de fazer mosteiros, como se fôssemos monjas; e parece-me que eu desejava sê-lo (...).” (V 1,6). Perde sua mãe muito cedo, quando tinha 13 anos. Nessa ocasião, recorreu aflita a uma imagem de Nossa Senhora, suplicando-lhe com lágrimas para que se tornasse sua mãe (V 1,7). Poucos anos depois, com a idade de 17 anos, passa por um período difícil, de forte crise afetiva, incidindo na sua relação com Deus e na prática da oração (V 19,4).

A vocação religiosa vai amadurecendo aos poucos, por volta dos anos de 1532-1533, coincidindo com o período de seu internato junto às irmãs agostinianas de Santa María de Gracia, em Ávila (V 2,6), e a passagem pela casa de seu tio Pedro Sánchez. Nesse período, a leitura das Epístolas de São Jerônimo foi de grande importância no processo de seu amadurecimento espiritual (V 3,7) . No breve período em que passou com seu tio, Teresa pôde compreender coisas fundamentais para o seu caminho espiritual. Em particular, “a inutilidade de tudo o que há no mundo, a vaidade existente neste, a rapidez com que tudo acaba” (V 3,5). Firma-se, em seu coração, o desejo de abraçar a vida de monja.

O segundo momento de sua vida inaugura-se com a entrada no Mosteiro da Encarnação, em 1535, aos vinte anos. Ali viviam no período cerca de 200 pessoas, entre religiosas e familiares. Recebe o hábito em novembro de 1537, e esse momento vem descrito no Livro da Vida:

“Quando tomei o hábito, o Senhor logo me fez compreender como favorece os que se esforçam por servi-Lo. Ninguém percebeu o meu esforço, mas só a minha imensa vontade. Ao fazê-lo, tive tal alegria de ter abraçado aquele estado que até hoje permaneço com ela; Deus transformou a aridez que tinha a minha alma em magnífica ternura.” (V 4,2)

No ano seguinte de sua profissão religiosa, Teresa adoece com gravidade. Os sintomas aparecem em meados de abril de 1539, quando ela tinha 24 anos. Ela relata no Livro da Vida: “Mudar de vida e de alimentação causou-me danos à saúde. Embora fosse grande a alegria, não o suportei. Os desmaios aumentaram, com uma dor no coração de tamanha intensidade que todos os que me viam se espantavam, ao lado de tantos males” (V 4,5). Diante do insucesso com os médicos da região, foi buscar ajuda junto a uma famosa curandeira em Becedas, lugarejo situado nas imediações de Ávila. Foram três meses de tratamento intensivo, mas cercado de muitas dificuldades: “Por três meses, padeci tanto, devido ao rigoroso regime a que fui submetida, que não sei como suportei o tormento.” (V 4,6). O tratamento ganha continuidade na casa de seu pai e depois na enfermaria do Mosteiro da Encarnação. Os médicos a desenganavam, e as dores a consumiam. Foram três anos de muita luta e muitos sofrimentos (V 6,1-2). Relata em sua biografia que o que mais ansiava era poder voltar à sua vida de oração: “Eu ansiava pela cura, unicamente para voltar a ter solidão e orar, o que, na enfermaria, não era possível.” (V 6,2)

No relato feito por Teresa, a superação daquele momento difícil foi favorecido pela vida de oração, e também pela intercessão de São José, a quem ela atribuiu sua cura (V 6,6). Teresa passa a sentir a presença viva de Deus no seu caminho, com sua Misericórdia, Generosidade e Gratuidade: “Vossa mão me sustenta há vários anos” (V 6,9); “Vós não vos afastastes de mim por inteiro, dando-me sempre a mão para que eu voltasse a me levantar” (V 6,9). É curioso perceber na leitura do Livro da Vida não apenas a ideia do protagonismo de Deus na vida de Teresa, mas também da bondade de Deus, algo que ela percebe e constata por experiência: “Muitas vezes pensei, espantada, na grande bondade de Deus, ficando minha alma maravilhada ao ver sua grande magnificência e misericórdia (...). Por piores e mais imperfeitas que fossem as minhas obras, o Senhor as melhorava, aperfeiçoava e tornava meritórias, apressando-se a esconder minhas faltas e pecados” (V 4,10).

Em sua biografia, Teresa assinala que passou muitos anos dividida entre dois apelos: o chamado de Deus e o chamado do mundo: “Davam-me grande alegria todas as coisas de Deus, mas eu me via ligada às do mundo. Tenho a impressão que desejava conciliar esses dois contrários, tão inimigos um do outro: a vida espiritual e os gostos, alegrias e divertimentos dos sentidos” (V 7,17). É um tema que banha sua redação, dessa luta tenaz, dessa lida com seus dois amores: “lidar com Deus e lidar com o mundo” (V 8,3). O recurso mais forte para a resolução dessa tensão foi a oração, entendida sempre com o registro da amizade: “Para mim, a oração mental não é senão tratar de amizade – estando muitas vezes tratando a sós – com quem sabemos que nos ama” (V 8,5). Foi por intermédio da oração que Teresa soube reconhecer a infinita bondade de Deus, essa “delícia dos anjos”, e admite que todo o seu ser vem tomado pelo desejo de se desfazer nesse amor (V 8,6).

A oração foi a grande “porta” de entrada para a vida espiritual, o caminho de acesso “às grandes graças” recebidas (V 8,9). É a porta que dá acesso às Moradas Interiores. Apesar das resistências de Teresa às experiências mais intensas e sublimes do “êxtase” amoroso, ela vai sendo tomada pela força de sua gratuidade. Não há como resistir a tal Presença. As visões começam a surgir, em torno dos anos de 1554, na proximidade de seus quarenta anos: a percepção do Cristo em chagas (V 9,1), do Cristo representado em seu mundo interior (V 9,4). Apesar dos vínculos que a prendiam, começa a viver esse sentimento de Presença, como no belo relato do capítulo 10 do Livro da Vida:

“Vinha-me de súbito, na representação interior de estar ao lado de Cristo, de que falei, tamanho sentimento da presença de Deus que eu de maneira alguma podia duvidar de que o Senhor estivesse dentro de mim ou que eu estivesse toda mergulhada nele. Não se tratava de uma visão; acredito ser o que chamam de mística teologia : a alma fica suspensa de tal modo que parece estar fora de si; a vontade ama, a memória parece estar quase perdida, o intelecto não discorre, mas ao meu parecer, não se perde; entretanto, repito, também não age, ficando como que espantado com o muito que alcança, porque Deus lhe dá a entender que ele nada compreende daquilo que Sua Majestade lhe representa” (V 10,1).

Firma-se para Teresa a ideia do protagonismo de Deus, talvez a experiência teresiana mais forte e densa. Ela dirá: “Tudo é dado por Deus” (V 10,2). Todo um aprendizado percebido não pelo trabalho da intelecção, mas pela gratuidade do dom de Deus, por experiência. E assinala que tudo fica “bem obscuro” para os que carecem desta experiência (V10,9). E o que mais impressiona é que Deus, quando deseja, pode “ensinar tudo num momento”, de forma que provoca espanto (V 12,6 e V 22,3).

Mas logo nesse momento em que Teresa começa a vivenciar os traços mais singelos de sua experiência mística ocorre simultaneamente a presença ardilosa da inquisição na Espanha . Em 1559, vem publicado um Index dos livros religiosos, entre os quais muitos apreciados por Teresa: obras de João da Cruz, Francisco de Borja e Padre Granada.  Os “temas doutrinais prediletos da Santa, como a oração mental, contemplação, recolhimento, quietude, eram olhados com desconfiança.”  Tudo era motivo de suspeição. As tensões refletiam-se na relação de Teresa com seus confessores, alguns dos quais asseguravam que as visões testemunhadas por Teresa eram problemáticas, expressões mesmo de presença demoníaca . Ela lamentava a carência de orientadores maduros que a pudessem ajudar no seu itinerário espiritual:

“Duraram muito tempo esses tormentos, que vinham de todos os lados, mas que passavam com as graças que o Senhor me concedia. Digo isso para que se entenda a grande dor que é não contar com quem tem experiência nesse caminho espiritual, pois se o Senhor não me favorecesse tanto, não sei o que teria sido de mim. Não faltavam coisas para me tirar o juízo, e algumas vezes eu me via em situações em que só me restava elevar os olhos ao Senhor” (V 28,18).

Mas Teresa preferia confiar na voz de Deus. Dizia: “Sempre que o Senhor me ordenava uma coisa na oração e o confessor me dizia outra, o próprio Senhor repetia que lhe obedecesse” (V 26,5). A mística abulense relata que ficou muito sentida quando ocorreu a proibição da leitura dos livros em castelhano, que ela tanto apreciava. Mas logo ouviu uma voz confortadora: “O Senhor me disse: Não sofras, que te darei livro vivo” (V 26,5). Diante da barreira da inquisição, Teresa encontrava um caminho alternativo: da experiência de um “livro verdadeiro”, impresso na alma, cujo conteúdo não se pode esquecer. Ela já tinha sido antes confortada pela força do Senhor, que sublinhara a importância de manter aceso o colóquio com os anjos e não com os homens (V 24,5). O seu mundo interior estava protegido das investidas do maligno. Sabia da força do poder de Deus e de sua presença amparadora: “Deus parecia verdadeiramente me dar ânimo, modificando-me por inteiro num breve instante, a ponto de eu não temer enfrentar os demônios corpo a corpo” (V 25,19). E sublinhou mais adiante: “E uma figa para todos os demônios, pois são eles que hão de me temer” (V 25,22).

As primeiras visões de Jesus ocorrem nos anos de 1559 e 1560. Primeiramente, uma visão intelectual no dia de São Pedro (V 27,2). Depois, uma visão imaginária, marcada por formas sensíveis. É o que ocorreu no dia de São Paulo, durante a missa. Ela relata a beleza de tal visão: “É uma luz tão diferente das do mundo que o clarão do sol que vemos parece sem brilho em comparação com a claridade da luz que se apresenta à vista. Quase não se quer abrir os olhos depois disso” (V 28,5). Se em momentos anteriores de oração, Jesus tinha se manifestado ora com “suas mãos”, ora com seu “rosto”, agora – na festa de São Paulo – apresentava-se “por inteiro” (V 28, 1 e 3) .

Esse segundo momento na vida de Teresa vem tecido por muitas graças místicas, de experiência de um “Deus gratuito, divinamente comunicador”. São vinte e oito anos que marcam uma experiência receptiva, que vai acontecendo progressivamente em sua vida, sinalizando o toque de uma graça transbordante e edificante. É o período que consagra Teresa “como uma das melhores escritoras ´das ações magníficas de Deus` (Magnalia Dei); educadora de fiéis e fundadora de igrejas domésticas (...).”  Os primeiros eventos místicos relatados por Teresa no Livro da Vida ocorrem quando ela se aproximava dos 40 anos, por volta de 1554-1555. É algo que irrompe em sua vida de forma inesperada e imprevista. Não é ela que busca tais graças, mas vem por elas tomada. No início, as experiências são esporádicas e depois ganham estabilidade e permanência, como traços incisivos em sua vida.  Mas, quando tais eventos ocorriam no domínio público, isso provocava muita inquietação e vergonha na mística (V 31,12).  Em linha de semelhança com os malamatis sufis, Teresa não queria estar no centro das atenções nem ser considerada como alguém especial, em razão da presença dessas graças em sua vida. Angustiava-se com isso (V 31,12) e, em razão da centralidade da humildade, buscava sempre desviar essa atenção para o Senhor, que de fato era o sujeito principal e essencial. O que há de bom, dizia, vem sempre de Deus. Chegou mesmo a suplicar a Deus em oração: “Quando alguma pessoa pensasse bem de mim, Sua Majestade lhe declarasse meus pecados para que ela visse com quão poucos méritos meus Ele me concedia graças, desejo que tenho sempre muito vivo” (V 31,14).

Há que notar que, ao lado dessa presença intensa da atividade interior e mística de Teresa, há igualmente uma sede de irradiação. Há uma dimensão de Marta em Teresa. O itinerário não se encerra no mundo da interioridade, mas se espraia na vida prática. Esse é um dos traços mais característicos de Teresa, marcado pela “tensão operativa”. O evento místico não se encerra na contemplação, mas desdobra-se na atividade fundacional de Teresa, bem como na sua dinâmica de escritora viva e original.

Num terceiro momento emerge a Teresa fundadora. Aliás, esse foi um de seus grandes carismas, documentado nos capítulos 32 a 36 do Livro da Vida, a começar com a fundação do Carmelo de São José (Ávila). Outras iniciativas vieram nesse campo, enriquecendo sua atividade missionária, com a fundação de inúmeros Carmelos: Medina, Malagón, Valladolid, Duruelo, Toledo, Pastrana, Salamanca, Alba de Tormes, Segóvia, Beas, Sevilha, Vila Nova de la Jara, Palência, Sória, Granada e Burgos.

É também a etapa que revela a Teresa escritora. Esse foi um carisma tardio da mística abulense. Sua primeira grande obra, o Livro da Vida, ganhou seu fecho quando ela tinha 50 anos de idade (1565) . E seu último trabalho, as Fundações, foi concluído em 1582, um pouco antes de sua morte. O período que cobre os anos de 1562 a 1582 revela o momento mais ativo e produtivo da vida de Teresa, quando sua personalidade ganha pleno desenvolvimento. Como assinalou Tomás Álvarez, Teresa era portadora de um estilo singular. Ela

“possuía o dom da palavra, tão fluida e vivaz em sua pena como em seus lábios. Nem a gramática nem o código de normas sintáticas eram seu forte. Mas ela se bastou a si mesma para forjar um estilo plástico, inquieto, brilhante e eficaz, mais fascinante na linguagem oral que na escrita, apesar de ter preservado no papel a mesma força que possuiria em seus lábios.”

O livro das Moradas

O Prólogo

O Castelo Interior, ou o Livro das Moradas, não é um livro qualquer, é sobretudo um “símbolo maravilhoso do mistério do homem. É a alma de sua autora, Teresa de Jesus, que se vai suplantando e elevando de morada em morada.”  Trata-se de um livro precioso, que, como tantas outras obras da tradição mística, revela o percurso fundamental do ser humano em direção ao horizonte do Mistério. O livro foi redigido em Toledo e Ávila, no ano de 1577, entre junho e novembro. Na ocasião, Teresa tinha 62 anos. É a obra de maturidade de Teresa, seu último livro doutrinal, que apresenta de forma clara e ordenada a experiência vivida pela mística de Ávila.

No momento em que começa a escrever esse livro, Teresa vivia uma situação difícil. A relação com as autoridades de sua Ordem não era favorável, mas conflitiva. Passava por um período de exaurimento psico-físico, sendo mesmo aconselhada por seus médicos a evitar toda escrita. O Livro da Vida continuava interditado, sob a tutela da inquisição. Apesar dos limites, Teresa motiva-se a escrever. Passados 12 anos da redação de sua primeira obra biográfica, Teresa tinha consciência de que o Livro da Vida estava ainda inconcluso e merecia um aperfeiçoamento. Sem contar o fato de que poderia se perder definitivamente, estando sequestrado pela inquisição. O dado da maturidade espiritual de Teresa contou também como fator motivador para a sua redação, sobretudo com o enriquecimento pessoal e o acúmulo de suas experiências .

No Prólogo de Moradas, Teresa fala de seu momento adverso: das dificuldades com a saúde e de sua falta de inspiração literária, sobretudo para temas relacionados à oração. Ela assinala: “Creio bem que pouco saberei acrescentar ao que já tenho dito em textos que escrevi em cumprimento à obediência, temendo antes repetir as mesmas coisas” (P 2). Ela escreve por força da obediência, e não se sente angariada por uma virtude especial, mas tem consciência de que o Senhor poderá indicar “algo novo” em sua reflexão. Como destinatárias, as monjas carmelitas, que buscavam esclarecimento sobre questões e dúvidas sobre a oração (P 4).

Primeiras Moradas

As primeiras moradas são desenvolvidas em dois capítulos. Na abertura do primeiro capítulo, ela associa o castelo à alma. Um castelo “feito de um só diamante ou de limpidíssimo cristal. Neste castelo existem muitos aposentos, assim como no céu há muitas moradas” (1M 1,1) . Nesse momento inaugural, de introdução nas moradas, Teresa fala da grandeza do ser humano e de sua dignidade singular: “Nada posso imaginar comparável à beleza de uma alma e a sua imensa capacidade” (1M1,1) . Esta dignidade deve-se ao fato de o ser humano ter sido criado à imagem e semelhança de seu Criador. O tom desta abertura é bem positivo, falando das riquezas que habitam na alma, de seu valor imprescindível e de sua beleza (1M 1,2) .  A alma é vista como “um paraíso” onde o Senhor encontra  “suas delícias” (1M 1,1).

Na reflexão de Teresa, a alma e o castelo se equivalem na linguagem simbólica da obra. Apesar de sua formosura, o castelo se diferencia de Deus, pois é “coisa criada” (1M 1,1). Mas foi plasmado à imagem de Deus, daí sua grandeza. As estruturas desse castelo precisam manter-se firmes e bem ancoradas, diz a mística abulense, e isso para preservar essa semelhança com Deus. No centro desse castelo há um aposento principal, especial, “onde se passam as coisas mais secretas entre Deus e a alma” (1M1,3).

Ocorre que o ser humano encontra-se numa situação de “desterro”, distanciado dessa Presença que clama. Daí a necessidade de uma atenção ainda maior a essa “bondade tão excessiva” e essa “misericórdia sem limites”. E o caminho é o da interioridade (1M 1,5), apesar das resistências serem imensas face a tal itinerário, que a alguns pode parecer um “desatino”. O caminho indicado por Teresa é o da oração. Ela é a “porta para entrar neste castelo” (1M 1,7). E a oração não se reduz a “mexer os lábios”, mas envolve uma sabedoria de lidar com as “coisas interiores”. Adverte, porém, que não são todos que se familiarizam com esse desafio, sobretudo quando se carece de experiência, pois sem ela fica “difícil de entender” .

Se no capítulo primeiro Teresa convida o leitor a penetrar no domínio da interioridade do castelo, no segundo capítulo ela adverte o leitor para os riscos presentes nessa investida. Fala em particular da atenção ao pecado, que ameaça o circuito da interiorização. O castelo é uma “pérola oriental”, uma “árvore da vida”, ele brilha como o Sol no fundo da alma. Mas há obstáculos precisos que impedem a captação humana de sua beleza, sobretudo em razão do pecado (1M 2,1). E Teresa sabe muito bem sobre o que isso significa, pois viveu na pele essas limitações. O tema dessa abertura gira em torno deste “mistério do mal”, sobre as desordens que interditam o acesso às “águas vitais” das Moradas.  Como pista de superação, a busca de um novo estado, marcado pela força da graça: “As obras da alma em estado de graça são extremamente agradáveis aos olhos de Deus e dos homens. Procedem desta fonte de vida em que está plantada a alma, à semelhança de uma árvore à beira de um rio” (1M1,2). Na visão de Teresa, há que romper com o pano espesso e sombrio que cobre esse maravilhoso cristal, e possibilitar a presença do “Sol que resplandece no íntimo da alma” (1M 2,3).

Diante do mistério do mal, o recurso essencial da humildade, mas também da paciência. E um conselho que sempre vem retomado pela santa abulense: “Pondes os olhos no centro: aí está o salão principal, onde se encontra o Rei” (1M 2,8).  Entra, então, em cena uma imagem muito rica utilizada por Teresa, a do palmito. Para acessar o salão principal onde se encontra o Rei, há que superar as barreiras, como no palmito: “Para chegar à medula saborosa, há muitas camadas envolvendo-a inteiramente. Assim aqui: em redor e também por cima deste salão há muitos outros salões, iluminados pelo Sol que reside no centro e se comunica a todas as dependências” (1M 2,8).

Abrigando o tema do socratismo, Teresa vai em sequência insistir na importância do conhecimento de si mesmo, regado sempre pela virtude da humildade. E assinala: “É sumamente bom entrar primeiro no aposento do conhecimento próprio, antes de voar aos outros” (1M 2,9). Mas esse conhecimento próprio deve ser acompanhado do conhecimento de Deus. Outro passo que Teresa lembra com frequência na sua reflexão mística . Em poema de grande beleza, Teresa fala dessa intercessão que marca a busca de Deus:

Alma, buscarte-ás em Mim,
  E a Mim buscar-me-ás em ti.

De tal sorte pôde o amor,
Alma, em Mim te retratar,
Que nenhum sábio pintor
Soubera com tal primor
Tua imagem estampar.

Foste por amor criada,
Formosa, Bela e assim
Em meu coração pintada,
Se te perderes, amada,
Alma, buscar-te-ás em Mim. (...)

Busca-me em ti, não por fora...
Para me achares ali,
Chama-me, que, a qualquer hora,
A ti virei sem demora,
E a Mim buscar-me-ás em ti.

Seguindo a pista aberta por Tomás Álvarez, Teresa deixa uma série de conselhos para os que se encontram na primeira morada: Manter vivo o senso da dignidade e manter a mirada direcionada a Cristo e nos santos (1M 2,11) . Não perder a consciência dos limites que envolvem este momento inicial de caminhada espiritual. Nas primeiras moradas, diz Teresa, “chega pouca luz do salão principal, onde está o Rei”, o rumo fica ainda obscurecido. Mesmo com a luminosidade da sala, a pessoa ainda carece da claridade em razão do “impedimento que traz em si” (1M 2, 14). Manter firme o espírito combativo e não arrefecer os ânimos: “É de suma importância não haver descuido de nossa parte em desmascarar os ardis do demônio” (1M 2,15). Por fim, manter o olhar sempre voltado para o que há de mais nobre no caminho espiritual: o amor a Deus e ao próximo. Teresa sublinha que “quanto mais fielmente guardamos esses dois mandamentos, tanto mais seremos perfeitas” (1M 2,17) .


Segundas Moradas

Há um único capítulo nestas moradas, sendo o tema de referência a perseverança. Já na epígrafe diz Teresa: “Muito importa a perseverança para chegar às últimas moradas”. Em poema de rara beleza, Teresa já havia acenado para esta questão:

Nada te turbe,
Nada te espante,
Pois tudo passa
Só Deus não muda.
Tudo a paciência
Por fim alcança.
Quem a Deus tenha,
Nada lhe falta
Pois só Deus basta.

Essas são moradas que envolvem pessoas que já se adentraram no mundo da oração, e mostram-se sedentas em avançar pelos outros cômodos. Mas ainda falta-lhes a firmeza necessária para ir adiante. Esta expectativa gera sofrimento, mas também esperança: “Assim acontece com as almas nesses segundos aposentos: percebem melhor os chamamentos e convites diversos que faz o Senhor, à medida que se vão chegando para mais perto do centro, onde está Sua Majestade, que é muito bom vizinho e de imensa misericórdia e bondade” (2M  2).

Mesmo que se processe um avanço, o caminho ainda apresenta as seduções do tempo e a dinâmica das distrações. Diz Teresa que “é milagre deixar de tropeçar e cair” (2M 2), daí a importância essencial de manter aceso o amor do Senhor e desejar sua presença e companhia. Ele está sempre aí, com sua doce voz, a convocar seus seguidores. Isso vem favorecido nesse momento, pois é quando “o intelecto está mais vivo e as faculdades são mais hábeis” (2M 3). Apesar dos titubeios, a alma vem agora amparada pela razão e pela fé, na orientação para o caminho verdadeiro, para o equilíbrio interior . Teresa indica que a única esperança está ancorada no auxílio do Senhor, “sem o qual nada se faz” (2M 6). Aponta ainda a importância de um contato mais próximo com aqueles que já vivem mais intimamente essa presença de Deus, estando nos salões mais próximos do Rei. O traço de busca da conformidade aos caminhos do Senhor, na prática contínua da oração, vem reiterado pela mística abulense (2 M 8), bem como a busca incessante da paz e a suavidade do recolhimento ( 2 M 9 e 10).



Terceiras Moradas

Para o desenvolvimento da reflexão nestas moradas, Teresa vai recorrer a dois capítulos. Como tema geral, as provas a serem enfrentadas para o exercício do amor. No capítulo primeiro, emerge a questão da ascese, da vigilância e do esforço no caminho a ser percorrido, para superar certa “adolescência do espírito” . A referência bíblica para esse momento é a do jovem rico, descrita no evangelho de Mateus (Mt 19, 16-22). Alguém que guardava com retidão os mandamentos religiosos, mas mantinha-se apegado às suas propriedades. Em seu relato, Teresa assinala que desde que começou a refletir sobre essas moradas teve sua memória aquecida pela presença desse adolescente (neaniskos). Ela  serve-se do relato para assinalar que as palavras não bastam para que o Senhor se apodere da alma, é necessário um passo a mais (3M 1,6). O apego é sempre problemático. Já tinha também aventado sobre isso no Caminho de perfeição:

“Vós, filhas, dizendo e fazendo palavras e obras, como na verdade parece que fazemos nós, os religiosos; contudo, por vezes não só oferecemos a jóia como a pomos em Sua mão, mas voltamos a tomá-la. De repente, somos generosos e, depois, tão avaros que seria melhor termos refletido um pouco mais antes de dá-la” (C 32,8)

São muitas as barreiras e impedimentos que podem ser encontrados nesse momento de adolescência espiritual. São traços de narcisismo e de arrogância, de hybris totalitária, que impedem a abertura; que mantêm viva a ilusão de que a verdadeira iniciativa no plano espiritual deve-se ao sujeito, e que Deus apenas colabora de forma secundária. Daí insistir tanto Teresa na humildade, e repete a expressão duas vezes (3M 1,7). O caminho a ser seguido passa pelo mundo interior: “Entrai, entrai em vós mesmas, filhas minhas! Elevai-vos acima de vossas pequeninas obras” (3M 1,6). E sempre mirando os santos, já familiarizados com a câmara do Rei. A advertência de Jesus ao moço rico serve de exemplo para o caminho espiritual a ser trilhado. Há que seguir alegres nesse itinerário da alma, sublinha Teresa, tendo sempre o amor como lema essencial, um amor edificado não na imaginação, mas “provado por obras” (3M 1,7).

No capítulo segundo tem início a seção propriamente ascética das Moradas. Não que a luta e a batalha estejam ausentes nos outros momentos. Na verdade, a luta pessoal e o esforço estão sempre acompanhando o seguidor em todos os passos de sua caminhada espiritual, até a coroação da morada derradeira. Teresa tem aqui em mente as pessoas que avançaram com entusiasmo na vida espiritual mas que por alguma razão ou crise recuaram ou se recolheram, não conseguindo superar os reveses e as provas. Ela assinala: “Muitas vezes Deus quer que seus eleitos sintam a própria miséria. Para esse fim, retrai um pouco seu favor. No mesmo instante, caem em si. Não é preciso mais para verem logo que é Deus quem assim os prova” (3M 2,2).

Teresa já anuncia na epígrafe que submeter-se às provas faz parte do caminho espiritual. É o Senhor mesmo que prova aqueles que estão nessas moradas. E elas são duras e exigentes. É também mais um momento propício para Teresa indicar que todo protagonismo vem de Deus, para além de quaisquer esforços e projetos pessoais.  Uma das provas elencadas relaciona-se com a forma de lidar com o prejuízo material. Como lidar com o desassossego e a inquietação que esta carência suscita ? E mais difícil ainda entender a exigência do desapego, que envolve o deixar tudo por amor ao Senhor (3M 2,4). A sede de riquezas e o apego aos bens é também um outro limite, e desapegar-se disso é também uma outra prova exigente. Diz Teresa que esses apegados jamais subirão “às moradas mais próximas do Rei”, ainda que tenham boa intenção (3M 2,4). Saber lidar com serenidade diante da erosão do prestígio é igualmente uma outra prova (3M 2,5). Pode-se ainda acrescentar a “preocupação com a saúde” e  com a própria vida (3M 2,8). Diante de tudo isso, requer-se desapego. É o que também falou Teresa no Caminho de perfeição:

“Quando nos apegamos apenas ao Criador e consideramos nada todas as coisas criadas, Sua Majestade nos infunde as virtudes de tal maneira que nós, trabalhando pouco a pouco de acordo com as nossas forças, não teremos mais lutas a travar, pois o Senhor toma a si a nossa defesa contra os demônios e contra o mundo inteiro. Pensai, irmãs, ser pouco benefício procurar entregar-nos sem reservas ao Todo?” (C 8,1) .

O caminho apontado por Teresa vai na linha da prática das virtudes, deixando-se envolver pela vontade de Deus (3M 2,6). E sempre com muita humildade . A vida espiritual requer ousadia, empenho e alegria. Atuar com aridez e temor provoca, antes, o desvio do horizonte almejado. Há que se despojar sempre, e deixar-se envolver pelas “mãos do Senhor”, driblando os temores e as fraquezas, que são barreiras que prejudicam o caminho (3M 2,8).

De muita serventia nessa etapa da caminhada são os guias espirituais. De acordo com Teresa, são eles que ajudam os buscadores a evitar seguir sua própria vontade. Em verdade, “a comunicação espiritual com aqueles que já estão desapegados de tudo é de enorme proveito para conhecermo-nos a nós mesmos. Além disso, dá-nos muito ânimo vermos praticados por outros, com tanta suavidade, sacrifícios que nos parecem impossíveis de abraçar” (3M 2,12).

Quartas Moradas

As quartas moradas revelam um momento novo no itinerário espiritual. É o passo de entrada no espaço simbólico da presença de Deus, quando ocorre a irradiação dos “favores sobrenaturais, dificílimos de explicar”, como diz Teresa (4M 1,1). O momento reflete um estágio distinto na vida de Teresa, agora com 39 anos de idade, depois de ter passado pela experiência da conversão sob o impacto da leitura das Confissões de Agostinho .  O tema desses “favores sobrenaturais” recobre o capítulo primeiro. É quando se percebe com mais vitalidade os “benefícios” do Senhor, que atua livremente e quando quer. Os buscadores nessas moradas encontram-se mais próximos do aposento do Rei e participam de coisas muito mais “delicadas” que nos momentos anteriores; realidades transcendentes que escapam ao domínio da intelecção (4M 1,2). Enquanto nas terceiras moradas os temas dominantes relacionavam-se ao processo ascético, agora inaugura-se algo de novo, que diz respeito à preparação dos estados místicos.

No intuito de favorecer os passos que marcam a oração, entendida sempre como uma essencial dimensão da vida cristã, Teresa opera com uma distinção importante, entre os contentamentos (consolações) e os gostos.  Os primeiros, que procedem através da meditação, têm a marca da natureza humana e “nascem na obra virtuosa que realizamos”. Por sua vez, os gostos traduzem uma alegria espiritual mais profunda, regida pela Presença de Deus. Eles “têm o seu princípio em Deus e vêm a nós” (4M 1,4). Entre os dois há uma notável diferença, como a que ocorre entre a meditação e a contemplação .

Para que seja dado o passo das consolações para os gostos, faz-se necessária a dilatação do coração, na linha do Salmo 119,32. Trata-se do momento em que se supera a vida precedente, feita de esforços e de luta, e se mergulha no “fluxo misterioso de sentimentos, emoções, afetos interiores que brotam dos meandros mais profundos da alma.”  É uma experiência de profunda alegria.

Pelo viés da experiência, Teresa alcança esse limiar de beleza, para além dos ruídos e distrações do tempo. O momento é de grande inspiração, e ela relata “ter na cabeça rios caudalosos, cujas águas se despenham” (4M 1,10). Tudo é motivo de vibração, em razão da percepção da presença novidadeira de um “mundo interior”. E a consciência viva de que, para avançar nas moradas desejadas, “o essencial não é pensar muito – é amar muito” (4M 1,7).

Teresa inicia o capítulo segundo com uma de suas clássicas afirmações: “Valha-me Deus! No que fui me meter!” (4M 2,1) . Não vivia um momento fácil na sua vida e a redação estava meio desordenada. Escrevia a caminho de Ávila, em traços espaçados, com a saúde frágil e sua reforma sob suspeição. Mas, com sua tenacidade, vai em frente. Busca agora detalhar sua reflexão sobre os gostos de Deus que, em outra ocasião, relacionou com o tema da oração de quietude. A imagem da água surge como um símbolo essencial nesse momento. Sublinha que, para explicar determinados assuntos espirituais, nada mais a propósito do que recorrer ao exemplo da água. Fala então de duas fontes distintas que abastecem dois reservatórios:

“De modo diferente são abastecidos esses dois reservatórios. Um recebe a água de longe, através de aquedutos feitos por mãos humanas. O outro, feito na própria nascente, vai-se enchendo sem ruído e, quando o manancial é caudaloso – como este de que falamos – transborda e forma um grande arroio, sem necessidade de artifícios humanos” (4M 2,3).

A imagem dos dois reservatórios vem utilizada para exemplificar a diferença entre contentamentos e gostos. Resultantes da meditação, os contentamentos são comparados à água trazida pelo encanamento, envolvendo a presença da reflexão e das diligências do sujeito. Os gostos, por sua vez, brotam da própria nascente de Deus, sendo efeitos da graça sobrenatural. Não dependem mais da ação humana, mas da pura gratuidade de Deus. Eles fazem “brotar grandíssima paz, quietação e suavidade no mais íntimo da alma” (4M 2,4).

É um tema que envolve grande profundidade, de difícil acesso. Teresa fala aqui dos segredos de Deus, e também da dificuldade humana em penetrar “tudo quanto há de maravilhoso na menor criatura de Deus, ainda que seja uma formiguinha” (4M 2,2). São mistérios que exigem do sujeito receptividade e abertura, e também a dilatação do coração. E no caso dos gostos, requer-se ampliar o olhar, para se poder perceber que o deleite produzido procede “de outro lugar ainda mais profundo”, identificado com o “centro mesmo da alma” (4M 2,5).

O mistério de Deus, no fundo da alma, excede ao alcance do ser humano, por mais que ele se esforce. Daí Teresa dizer que “dentro de nós mesmos há grandes segredos que não entendemos”. E, lá no fundo de nós mesmos, há a presença de um braseiro que irradia finíssimos perfumes, como também é lembrado no Cântico dos Cânticos (Ct 3,6). Nessa dimensão de profundidade (hondón interior), revela-se a ação irradiadora da água celestial : “Essa água vai dilatando e alargando todo o nosso interior e produzindo bens indizíveis. Nem a própria alma favorecida é capaz de entender o que ali se passa!” (4M 2,6) .

A leitura atenta desta passagem de Teresa sinaliza um traço muito importante de sua percepção mística: a presença da corporeidade. Como mostra a mística abulense, os perfumes que se irradiam do braseiro, com seus vapores olorosos, penetram toda a alma e se estendem ao corpo (4M 2,6). O corpo torna-se espaço da presença de Deus. Tudo muito significativo, ajudando o leitor a compreender a clássica passagem do Livro da Vida, em que se diz: “Não somos anjos, pois temos um corpo” (V 22,10). Aqui está uma chave muito importante para entender a espiritualidade de Teresa. Como mostrou Michel de Certeau, “o corpo torna-se o órgão de todos estes ´favores` e ´graças` espirituais”. Revela-se como linguagem que canta a Presença do Senhor, que fala de seus “gostos”, de suas “delícias” e “prazeres”.

Nos tempos de Teresa estavam em voga determinadas técnicas de esvaziamento da mente para favorecer o alcance das coisas sobrenaturais. Teresa reage a tais procedimentos e insiste no toque da gratuidade, e isso já na epígrafe desse capítulo segundo, mostrando como os gostos “se alcançam sem ser procurados”.  De novo em ação o protagonismo de Deus no caminho de aperfeiçoamento espiritual. O que ela visa salientar, com razão, é que, na relação com Deus, existem “zonas de absoluta gratuidade”, que estão radicalmente fora da alçada humana. Trata-se de uma operação muito delicada, sutil, gratuita. O que ocorre é fruto de uma outra grandeza, “não é do nosso metal e sim do puríssimo ouro da sabedoria divina” (4M 2,6). Ao ser humano cabe o desafio sempre crescente de manter viva a humildade e, sobretudo, “amar a Deus sem interesse algum”. A água divina, lembra Teresa, não depende de encanamentos humanos, pois brota de um outro manancial. Ela “só jorra quando Deus quer e para quem ele quer, muitas vezes quando a alma está descuidada” (4M 2,9).

No capítulo terceiro, Teresa produz um certo recuo ao falar da oração de recolhimento. Nas quartas moradas, o clima já é o da oração de quietude. A difícil conjuntura em que vivia talvez tenha contribuído para tal confusão, alterando a ordem temática da exposição. Mas as ideias são claras, como indica Tomás Álvarez, com a correta progressão dos graus de oração, agora clarificados nas Moradas, cuja coroação advém com a oração de quietude e a oração mística .

Essa terminologia do “recolhimento” era comum aos escritores espirituais contemporâneos de Teresa, uma corrente de espiritualidade que tinha sua raiz em Agostinho. Trata-se do chamado à interioridade. É nesse clima de recolhimento que os buscadores podem captar o suave assovio procedente do Rei que habita o interior das Moradas. Ele age como o bom pastor que, com seu doce e sutil chamado, quase imperceptível, convoca as ovelhas para a sua morada. De forma semelhante, os fiéis em seu recolhimento, reconhecem a voz do Senhor, e o seu assovio age com tanto impacto que eles “abandonam as coisas exteriores em que andavam distraídos e entram no castelo” (4M 3,2).

Teresa recorre a Agostinho para mostrar como Deus vem encontrado com maior proveito quando buscado a partir da intimidade da alma. O acesso a seu mistério não se dá por meio do intelecto ou da imaginação, mas por uma especial disposição interior, de um “recolhimento suave” (4M 3,3). De forma diversa ao que ocorre com a tartaruga e o ouriço, que se retraem quando querem, no caso dos buscadores, o recolhimento não depende do seu querer, mas da iniciativa divina: “É só Deus que nos faz esta mercê” (4M 3,3).

Nesse momento do caminho, é Deus mesmo quem chama os seguidores a buscar as “coisas mais altas”. Mas há que ter perseverança e humildade pois, nas coisas espirituais, “quem menos pensa e quer fazer, faz mais” (4 M 3,5). E os caminhos abertos por Deus para aqueles favorecidos por seus gostos são sempre inusitados. Ocorre, muitas vezes, a presença de “conhecimentos e luzes” que estão acima do alcance da inteligência, deixando os seguidores absortos, abobados e atordoados (4M 3,6). Na oração de quietude, que é a oração dos gostos divinos, o alargamento da alma é ainda mais intenso e a percepção da força das águas se faz sentir com muita evidência. São caminhos possibilitados pelo Senhor para habilitar a alma, de forma a poder acolher todas as suas graças (4M 3,9).

O contemplativo nessas quartas moradas ainda está em processo de amadurecimento. É como a criancinha que depende do leite materno. Ele, como ela, não pode se afastar desta nutriz, pois o risco do desfalecimento é grande. Daí a importância, lembra Teresa, de manter sempre acesa a oração. É com ela que a vida ganha sua unificação e integridade (4M 3,10).

Teresa vai finalizando sua reflexão no capítulo, mostrando como essa maior proximidade a Deus causa no seguidor uma espécie de “abobamento”. A intimidade provoca embriaguez, e se dá simultaneamente com o enfraquecimento da natureza. A verdadeira mercê de Deus provoca “desfalecimento interior”, embora a alma nesse estado sinta-se mais forte. Mas a proximidade estonteia, provoca estupefação. Ver a Deus assim tão perto é muito assombro para o ser humano: é como se o mar se encerrasse todo inteiro num só rio . Por sorte, “não dura tanto. É muito breve” (4M 3,13).

Quintas Moradas

É nesse momento da reflexão espiritual de Teresa que se alcança a morada da união. Entra-se agora num dos rincões mais profundos da vida espiritual, com a introdução à oração mística. Os motivos aqui são tão ricos que a mística titubeia em expressar sua realidade, isso no começo do capítulo primeiro: “Ó irmãs, como vos poderei falar das riquezas, dos tesouros e deleites que há nestas quintas moradas? Creio que seria melhor nada dizer dessas nem das que faltam. Não há quem saiba falar delas” (5M 1,1). Ressalta que o acesso a certas graças particulares está interditado a muitos, mas indica que o achegar-se “à porta”  já é uma grande vantagem para os buscadores.

Nesse passo do itinerário espiritual, as exigências são muitas. Não pode haver mais reservas, pois o Senhor convoca a uma doação total. Ele “exige tudo para si” e só na medida em que essa correspondência se dá é que as mercês são disponibilizadas aos buscadores (5M 1,3). Há que morrer para os deleites do mundo, confirma Teresa: Morrer antes de morrer. E essa não é uma morte qualquer, mas uma morte saborosa e deleitosa, pois traduz um novo viver em Deus, um acercar-se aos segredos de Deus (5M 1,4). Quando a união se firma, diz Teresa, os vermes se afastam e os demônios deixam de causar dano. É como estar numa morada defendida: o inimigo não se atreve a nenhuma aproximação (5M 1,5).

O estado de união, ainda que breve, produz efeitos impressionantes no sujeito. Isto já tinha sido motivo da exposição de Teresa no Livro da Vida (V 10,1). Mas vem agora retomado. É quando Deus imprime no sujeito a “verdadeira sabedoria”, suspendendo toda a atuação do intelecto. O estado de quem vive esse momento é de um ser “abobado”. Deus se imprime no interior do sujeito de tal forma que, “ao sair daquele estado, voltando a si, de nenhum modo duvida de que esteve em Deus e Deus nele” (5M 1,9). Diante de tamanha inefabilidade, Teresa recorre aos símbolos para dar conta do que busca expor. Sua intenção é mostrar o protagonismo de Deus, e também o seu poder: “Por maiores diligências que façamos, não temos parte nisso, nem o podemos alcançar: tudo vem de Deus. Não tenhamos a pretensão de entendê-lo” (5M 1,11). Com o símbolo do selo e da cera, Teresa busca ressaltar a gratuidade da ação de Deus: “A cera não grava em si mesma o selo, apenas dispõe-se a recebê-lo pela sua brandura” (5M 2,12). O mesmo ocorre com o símbolo da adega dos vinhos, também utilizado por João da Cruz, com base no Cântico dos Cânticos (Ct 2,4). É o rei que introduz a esposa na adega, para beber do Amado. Mas não é ela o sujeito da ação, pois não entra por si mesma. Ela vem introduzida ali por seu Amado. Novamente o toque da gratuidade. Teresa indica aqui que o ser humano, por mais que se esforce, não é o sujeito do processo, pois é Deus, e somente Deus, quem possibilita esta imersão no centro da alma (5M 1,12).  Por fim, o símbolo do cenáculo, com a alusão à experiência relatada no evangelho de João (Jo 20,19). Assim como na descrição de João, Teresa assinala que o Senhor entra no centro da alma, mesmo com as portas fechadas, sem necessitar de cooperação alguma. Ele entra livremente.

No capitulo segundo, Teresa trata dos efeitos deixados na alma na união com Deus. E aqui recorre novamente à simbologia, inserindo o bicho de seda, que tanto a impressionara na viagem a Andaluzia. Esse símbolo expressa também, como indicou Tomás Álvarez, a sua grande admiração pelo cosmo e pela vida.  Na engenharia da produção da seda, Teresa desoculta as maravilhas de Deus: “Trata-se de uns grãos pequeninos, como o grão de mostarda, que começam a cobrar vida quando se aproxima o calor da primavera” (5M 2,2). Daquele casulo feio e apertado, gesta-se o verme que depois morre para dar lugar a uma “borboletinha branca, muito graciosa” (5M 2,2) .

Na visão de Teresa, a alma no estado de oração mais profunda vive, de certa forma, uma morte semelhante à do verme que dá lugar à borboleta. Ela sai igualmente transformada depois de passar pelo mergulho na grandeza do Senhor, sentindo-se então profundamente unida a ele (5M 2,7). A experiência da quietude é acalentadora, fortalecedora, como a ação do calor da primavera sobre o bicho de seda. É quando o Senhor favorece a embriaguez do vinho. O buscador vem então recoberto de asas para voar mais alto, sem porém poder descansar, como a borboletinha branca (5M 2,8). As asas facultam liberdade, ruptura dos apegos enraizadores. E o caminho em aberto revela novas maravilhas, no exercício do amor, de forma a fazer cumprir, na dinâmica de sua vida, a vontade do Senhor (5M 2,12).

O capítulo terceiro revela uma estratégia nova de Teresa, ela abre a possibilidade de um caminho para aqueles que encontram dificuldades para seguir com seriedade as exigências das novas moradas. Revela uma outra rota de acesso, um outro modo de união, mais exequível aos principiantes. E sublinha: “Não convém ficarem sem esta esperança as almas não favorecidas pelo Senhor de mercês sobrenaturais. Com o auxílio de Nosso Senhor, poderão muito bem alcançar a verdadeira união” (5M 3,3).

Teresa reforça a ideia de que o Senhor é poderoso o bastante para abrir novos espaços e caminhos de acesso à perfeita união. E o caminho sugerido tem o forte toque evangélico: “Quanto a nós, só estas duas pede o Senhor: amor de Deus e amor do próximo. Nisso devemos trabalhar. Guardando-as com perfeição, fazemos sua vontade. Assim estaremos unidos a ele” (5M 3,7). É um dos momentos mais bonitos do livro das Moradas, de uma fidelidade evangélica das mais ricas e audazes. Teresa toca aqui num ponto nevrálgico da reflexão mística: aquele que bebe do Amado é convocado a irradiar esse amor aos outros. A contemplação se desdobra na ação, mais ainda, ganha seu complemento na experiência do amor.  Diz Teresa: “O mais certo sinal, a meu ver, para verificar se guardamos esses dois pontos com perfeição, é a observância generosa da caridade fraterna”. Sinaliza para as carmelitas que na medida em que estiverem adiantadas no amor do próximo, mais estarão no amor de Deus (5M 3,8).

A mística de Ávila complementa sua reflexão sobre o tema com uma indicação preciosa para todos aqueles que se debruçam sobre a prática da caridade fraterna. Ela adverte que a experiência do amor ao outro ganha sua luz decisiva na experiência do amor a Deus. São dois amores que se exigem mutuamente. Ela acredita, com acerto, que aquilo que possibilita o verdadeiro desabrochar do amor ao próximo é o mergulho na experiência de Deus: “O amor ao próximo nunca desabrochará perfeitamente em nós se não brotar da raiz do amor de Deus” (5M 3,9).

Ao final do capítulo, Teresa lança uma forte advertência às irmãs devotadas em oração, “encapotadas” em sua devoção, de tal forma ensimesmadas que receiam qualquer deslocamento de atenção. Indica a elas que o essencial na busca de Deus não se confina nestas “exterioridades”. Assinala que a vida de união desdobra-se em obras, pois assim é a vontade do Senhor: “Não, irmãs, não é assim! O Senhor quer obras. Se vês uma enferma a quem podes dar algum alívio, não tenhas receio de perder a tua devoção e compadece-te dela. E se lhe sobrevém alguma dor, doa-te como se a sentisses em ti. Se for preciso, faze jejum para lhe dar de comer” (5M 3,11) . Lembra ainda que a prática da caridade é essencial para alcançar a divina Majestade e o horizonte da união: “Se esta virtude vos faltar, ainda que tenhais devoção e satisfações espirituais e alguma suspensãozinha na oração de quietude – de modo que logo vos pareça haver atingido o cume e estar tudo feito – crede-me: não chegastes à união” (5M 3,12).

No capítulo quarto, vem introduzido o símbolo do matrimônio para expressar a oração de união. A inspiração vem de João da Cruz, mas com um toque de originalidade de Teresa. Ela tira do ritual profano a base para a articulação dos tempos progressivos que levam à união. Assim como o matrimônio civil requer uma fase preliminar de conhecimento prévio, também a núpcia espiritual requer alguns aprendizados, de forma a poder facultar a aproximação: a troca de olhares, o noivado, o matrimônio. A alma também precisa ficar enamorada e amadurecer esse tempo de encontro (5M 4,4). Os que vivem a intensidade desse momento devem, porém, permanecer sempre atentos, de forma a assegurar que Deus proteja este amor em suas mãos, que mantenha viva sua assistência (5M 4,9). E com base na percepção dessa misericórdia infinita, seguir sempre em frente, com audácia e alegria (5M 4,10).


Sextas Moradas

As sextas moradas ocupam praticamente um terço de todo o livro de Teresa de Ávila, com 11 dos 27 capítulos que constam nessa obra. Retoma-se aqui o filão autobiográfico, que traduz o período de grande vitalidade mística da autora, abrangendo a fase dos 43 a 57 anos. É também o momento em que polemizava com os teólogos de Ávila, que se negavam a autenticar suas vivências místicas.

Essas moradas expressam, assim, a intensidade espiritual de Teresa, de grande criatividade interior. O capítulo primeiro trata da noite do espírito, em que as situações que envolvem o buscador são recobertas de névoas e padecimentos. O caminho apontado pela mística abulense vai no sentido da sintonia com o caminho da cruz (6M 1,7) e da acolhida da misericórdia de Deus (6M 1,10). Não há como receber as joias da vida mística sem uma purificação do espírito, despojando-se dos apegos. O clima da “noite” pode ser favorável à adaptação do olhar para se inserir na luz da manhã.

Há modos específicos com que o Senhor desperta a alma, é o que mostra Teresa no capítulo segundo. São os  toques divinos, também lembrados por João da Cruz, por vezes dolorosos, mas também saborosos e suaves. O assovio do Amado, lembra Teresa, é penetrante, e quem o ouve acessa o conhecimento. Mas como é algo que provém das sétimas moradas, provoca inquietação entre aqueles que não galgaram tal patamar (6M 2,3). A dor do dardo – que também vem sinalizado no Livro da Vida (V 29,14) – traspassa as entranhas, irradiando um amor que não se apaga (6M 2,4). É algo também semelhante à fagulha que escapa do braseiro e atinge a alma, deixando-a abrasada.

No capítulo terceiro, Teresa busca favorecer os passos de discernimento para ajudar os iniciantes a reconhecerem a autenticidade de sua experiência espiritual. Como julgar “as diversas falas do Senhor à alma”, para evitar os enganos problemáticos? Como saber identificar se elas procedem de Deus ou do demônio? É o que se propõe a analisar Teresa. As pistas que ela lança são muito ricas, indicando sua perícia para lidar com essas coisas. Mas indica que, mesmo procedendo de Deus, elas não podem suscitar arrogância em quem vive a experiência. A humildade é sempre um requisito essencial para o buscador. Um dos critérios de discernimento encontrados por Teresa envolve o grau de “soberania e poder” que eles trazem consigo (6M 3,5). É quando por exemplo a alma sente a presença de uma força interior que a acalenta: “Não te aflijas”; ou então uma palavra que ilumina: “Sou eu, não temas.”  Isso produz imediatamente apaziguamento. Teresa viveu de perto esta situação, com a presença de certos confessores que a atemorizavam, dizendo que seu espírito estava sendo iludido pelo demônio. Mas ela ia adiante, com a força do Senhor. Outro sinal de discernimento é quando as falas provocam serenidade na alma (6M 3,6). Por fim, quando as falas permanecem vivas na memória por muito tempo. É outro sinal de sua autenticidade, pois as palavras que têm sua origem unicamente humana logo se desvanecem, enquanto as divinas deixam uma “certeza absoluta” (6M 3,7). São critérios objetivos de discernimento que ajudam as pessoas a reconhecerem “centelhas de certeza” nas revelações recebidas (6M 3,8).

O tema do capítulo quarto envolve as experiências de êxtases e arroubamentos que suspendem a alma. Em tais momentos, em que a alma vive uma intensa experiência de unidade com Deus, os segredos do Mistério podem permanecer abafados, ou então se dá uma “visão de passagem” do que ocorre no aposento mais central das moradas. Quando isso sucede, e a alma torna a si, “conserva uma lembrança das grandezas que viu. Contudo não sabe referir coisa alguma” (6M 4,8). O certo, para quem vive a experiência, é que tudo se assemelha a um “cisco” e “esterco” quando comparado aos tesouros a serem fruídos em momento oportuno (6M 4,10).

No capítulo quinto, Teresa aborda a questão do voo do espírito, aquele “movimento tão impetuoso da alma, que parece arrebatar-lhe o espírito com uma velocidade que infunde grande temor, especialmente nos primeiros tempos” (6M 5,1). Este êxtase é distinto de outro, que pode ser denominado “ênstase”, que é mais interiorizante, entendido como regresso ao fundo de si mesmo. No movimento de saída de si, do primeiro êxtase, vive-se algo que é arrebatador. É como se Deus abrisse “todas as represas dos mananciais de onde vem a água a esse reservatório” e uma grande onda desgovernasse o batelzinho da alma, rompendo o equilíbrio tradicional (6M 5,3). É quando então se mostra a força e a onipotência do grande Rei. Numa tal situação, é como se o espírito deixasse, por momentos, o corpo, sendo transportado para outra região bem diversa da habitual. Nesse voo do espírito, o sujeito se vê diante de uma visão imaginária, que faculta ver com os olhos da alma, num instante, coisas preciosas que jamais estariam disponíveis ao pensamento (6M 5,7). São “vislumbres” das moradas mais altas (6M 5,9), “joias” oferecidas por Deus e que são cuidadosamente guardadas (6M 5,11). Como indica Tomás Álvarez a respeito, a experiência do êxtase faculta uma nova tomada de consciência: “um novo posicionamento relacional diante das ´coisas da terra`.”

Os efeitos produzidos pelo êxtase são captados como verdadeiros e profundos, suscitando grande alegria na alma e dispondo-a a reforçar os seus louvores. Diante de tanta beleza, a alma chega a sentir ânsias de morrer, dada a consciência do desterro em que vive. É o que vem abordado por Teresa no capítulo sexto. A sensação da alma é como a da borboletinha que “não consegue achar pouso nem descanso. Vive com a alma tão cheia de ternura do divino amor, que qualquer ocasião capaz de incender mais esse fogo a faz voar” (6M 6,1). Daí a frequência de “arroubamentos” nesse momento da experiência, que ocorrem, às vezes, mesmo em público, provocando resistências. O poder e a força dessa experiência envolve o sujeito numa dupla sensação, que pode ser de “grande segurança”, mas também de “aflição”, diante do temor de ser enganado pelo demônio. Daí a importância do reforço das orações. O que ocorre nas suspensões da alma não são fenômenos passageiros, mas “permanentes e firmes” (6 M 6,5), suscitando “fome e sede de Deus”, mas também o desejo de ser “mais e melhor” na relação com os outros: “Não pensemos que tudo consista em chorar muito. Consiste antes em pôr mãos à obra e fazer muito, praticando as virtudes, que é o que importa” (6M 6,9). A alegria proporcionada pela experiência é tamanha que envolve o desejo de “saboreá-la” com os outros (6M 6,10). Trata-se, diz Teresa, de uma “boa loucura” (6M 6,11).

No capítulo sétimo, Teresa adverte seus leitores de que esse momento avançado da vida espiritual não está livre do “mistério do mal”. Vigora o temor da insegurança, a aflição mesma de perder a Deus, recaindo-se no estado miserável de outros tempos (6 M 7,3). Para vencer esses riscos, Teresa indica a importância de trazer para junto de si a humanidade de Jesus . Ela adverte: “Asseguro-lhes que jamais entrarão nestas duas últimas moradas. Se perdem o guia, que é o bom Jesus, como acertarão no caminho?” (6M 7, 6). Estar diante dessa presença, em oração, revela-se de extrema importância, contemplando-o “com um singelo olhar” (6M 7, 11).

Esse trato especial com Deus, na sexta morada, produz efeitos impressionantes na vida interior. É um passo equilibrador, mas que também apura e humaniza  a dinâmica de relação do sujeito com os outros, é algo que afina a mirada para o abraço envolvente com toda a criação. Isso é o que se deduz de toda a experiência mística de Teresa. E, nesse trato com o Mistério, a presença de Jesus ganha um significado muito especial. É o que também aborda Teresa no capítulo oitavo. Ela assinala que “quanto mais uma alma progride, mais inseparável se torna deste bom Jesus” (6M 8,1). Para a segurança do caminho, essa presença de Jesus junto a si revela-se essencial (6M 8,2). E aqui debruça-se sobre a visão intelectual de Jesus, também motivo de sua reflexão no Livro da Vida (V 27,2s). Trata-se do sentimento da presença de Jesus, que não se capta nem com os olhos do corpo nem com os da alma (6M  8,2). Estar diante dessa presença, sinaliza Teresa, é participar de algo poderoso, que exorciza o medo e incita a avançar com segurança (6M 8,3). Não pode ser fruto de um equívoco ou engano, pois é uma presença que produz e reforça a paz interior (6M 8,7). Aquele “livro vivo” de que falava Teresa no Livro da vida vem agora identificado com Jesus, em sua humanidade, que passa a fazer parte indissociável da existência e da experiência da mística de Ávila.

Se a visão intelectual de Jesus dominou o capítulo anterior, nesse capítulo nono, o tema desenvolvido é o da visão imaginária. Não se trata agora de uma pura experiência espiritual, mas da percepção viva da presença humana e física de Jesus .  A visão descrita por Teresa, que é captada com os “olhos da alma”, situa-a diante da formosura de Jesus: de suas mãos, de seu rosto e de toda a sua humanidade. Estar diante dessa “visão inteira” transforma a alma, como ocorreu com São Paulo na estrada de Damasco. Todas as faculdades e sentidos são envolvidas e transformadas (6M  9,10). Apesar do receio dos confessores, tais visões, sublinha Teresa, não são prejudiciais, sobretudo quando acolhidas com “humildade e pureza de coração” (6M 9,12).

Como indicou Tomás Álvarez, todo esse processo descrito por Teresa em torno das visões místicas pode ser sintetizado em duas palavras: “Vê-lo e enamorar-se” . Ou seja, envolver-se pela presença de Jesus e do Mistério a ele relacionado. Lembra ainda Teresa, no capítulo décimo, que são diversas as maneiras com que Deus se comunica aos humanos, levando a formas distintas de suspensão. Quando lhe apraz, ele possibilita a abertura de canais para revelar seus segredos, e a alma, tocada por esta presença, “tem a impressão de os ver no próprio Deus” (6M 10,2). O importante, diz Teresa, é não perder essa zona de luz e de fogo, que é a luz de Deus. Só ele é capaz de mostrar “em si mesmo uma verdade, que parece eclipsar todas as realidades existentes nas criaturas”. É a “verdade que não nos pode faltar” (6M 10,5).

Um momento culminante dessa morada acontece no capítulo onze, quando Teresa sublinha o passo da aproximação das grandezas de Deus. É quando os desejos crescem na proporção do amor (6M 11, 1). Tudo é possível para Deus, lembra Teresa, que num instante é capaz de fazer a alma alcançar as graças mais sublimes. O recurso imagético agora utilizado é o do fogo, e isso para expressar o momento abrasivo em que se vê envolvida a alma. Como um raio repentino, esse fogo age sem deixar espaço para coisa alguma, a não ser para a “notícia viva” e “íntima” do Senhor. Nada mais pode ocupar esse lugar, pois aí a alma encontra o seu verdadeiro bem (6M 11,5). Penetrada por essa “seta de fogo”, a alma vive um radical despojamento, sentindo-se livre diante das criaturas (6M 11 10).

Sétimas Moradas

As fortes experiências místicas descritas nas sextas moradas, com as visões intelectuais e imaginárias de Jesus, revelam-se um prelúdio para as teofanias trinitárias das sétimas moradas . O tema dominante dessas moradas é o da santidade. Logo no capítulo primeiro, Teresa fala dessa dinâmica: “Nosso bom Deus quer tirar-lhe as escamas dos olhos. Quer que veja e entenda aos menos parte da graça que lhe faz” (7M 1,6). É o momento em que se irradia a presença da Santíssima Trindade, no qual se capta por notícia admirável o significado destas três pessoas numa substância: “um poder, um saber, um só Deus” (7M 1,6). A percepção dessa presença habita agora o mais fundo da alma, o seu espaço mais íntimo, o seu abismo profundo. Isso se percebe nitidamente nesta morada, mesmo que a alma não consiga ainda definir, “por lhe faltar ciência”, mas é algo que lhe faz profunda companhia (7M 1,7). É nesse momento que se revela a maravilha de um novo estado, típica do místico que passou por grande aventura e agora visualiza a realidade com uma nova mirada. É também o momento em que se firma e cresce a capacidade de admiração, que envolve todo o mundo circundante. A imersão de Teresa no mistério de Jesus Cristo e no fundo interior, propicia – como lembra Tomás Álvarez – um olhar diferencial e novidadeiro diante da vida cotidiana.

O divino e espiritual matrimônio será objeto do capítulo segundo. O novo momento revela a partilha de bens muito especiais colhidos no aposento íntimo do Amado. Dá-se aqui um passo distinto com respeito ao momento anterior de noivado espiritual. Agora, “esta misteriosa união se realiza no centro mais íntimo da alma. Deve ser onde está o próprio Deus” (7M 2,3). Não se necessita mais agora de porta alguma.

Esse novo passo reflete uma radical transformação de amor: é a infinidade de Deus que faz sua irrupção na alma, como a irrupção do mar no rio:

“É como a água do céu caindo sobre um rio ou uma fonte. Confundem-se totalmente, a ponto de não se distinguir a água do rio e a caída do céu. Ou como um pequeno arroio que se lança no mar, não há meio de separá-lo. Ou ainda uma grande luz entrando por duas janelas: penetra dividida no aposento e torna-se uma só luz” (7M 2,4).

Nesse momento, a alma “faz uma só coisa com Deus” (7M 2,3). É quando então a borboletinha morre, e de imensa felicidade (7M 2,5). Não há melhor palavra para expressar o que acontece agora do que a “ternura”, e as exclamações que a acompanham: “Oh! vida de minha vida!”; “oh! sustento que me sustentas” (7M 2,6). O sentimento é o de alguém que se vê traspassado pelas setas de fogo do amor. Agora, a alma vem introduzida no “céu empíreo” onde habita o Senhor, nesse céu mais íntimo.

Teresa volta a lembrar no início do capítulo terceiro da borboletinha que morreu habitada pela alegria, tendo encontrado a paz essencial na transparência da presença de Cristo em seu interior. Esse morrer-para-a-vida é um sentimento que também habita os que buscam o caminho espiritual: morrer antes de morrer, como se diz na tradição mística, de forma a deixar-se hospedar pelo Mistério. A palavra que se firma para quem participa desse momento é uma só: permanecer com ele (7M 3,9). O buscador, nessa nova morada, está protegido das perturbações interiores. Não há mais riscos de enganos diabólicos. O que lhe cabe nesse momento é simplesmente entregar-se radicalmente na “consagração absoluta de si a Deus” (7 M 3,10).

O capítulo quarto, que encerra o livro das moradas, toca o ponto nodal da reflexão de Teresa: a prática do amor. Teresa insiste, já na epígrafe, que Marta e Maria devem andar sempre juntas. Esta é a verdadeira experiência da santidade: uma santidade que é fértil, que irradia o amor na história. Teresa indica que a razão de ser da oração é o seu desdobrar no tempo. O matrimônio espiritual tem por objeto as obras: “Que dele nasçam obras, sempre obras” (7M 4,6). É a grande mensagem das Moradas: a força da experiência interior, combinada com o empenho das obras, e com o olhar sempre voltado para a humanidade de Jesus e o seu selo da cruz (7M 4,8) .

Muito curioso constatar que um livro de alta espiritualidade ganhe o seu feixe acenando para o dado essencial da prática, das obras. Teresa retoma sua cantilena fundamental no aconselhamento às suas monjas: “Torno a dizer: para isso é necessário que não ponhais vosso fundamento só em rezar vocalmente e em contemplar. Se não buscardes as virtudes e não vos exercitardes nelas, ficareis sempre anãs” (7M 4,9). Para poder, de fato, hospedar o Senhor – diz Tereza -, “Marta e Maria sempre hão de andar juntas” (7M 4,12).

Em tempos marcados pela sombra da inquisição, Teresa oferece para suas seguidoras a beleza desta reflexão. E termina de forma encantadora. Para esse núcleo de religiosas que se encontram encerradas em seus mosteiros, com tão poucas distrações, ela lhes oferece o deleite de suas Moradas. A andança por seus diversos cômodos não depende de autorização das superioras: “Podeis entrar e passear nele a qualquer hora”.


Endereço do Autor:
Rua Antônio Carlos Pereira, 328
Condomínio Tiguera
Juiz de Fora, MG
E-mail: fteixeira@uaigiga.com.br